Big Data: conta non il “quanto” ma il “come”

Ogni tanto anche i migliori sbagliano. È successo all’Economist, che in un articolo del 6 maggio 2017 ha definito i Big Data come “il nuovo petrolio”. Il paragone, che a prima vista sembra reggere per quanto riguarda il valore che i dati hanno assunto nei modelli di business, in realtà mostra tutti i suoi limiti per chi, coi dati, ci fa business.

Prima di tutto, come ha fatto notare Amol Rajan in un articolo per BBC, petrolio e dati hanno ben poco in comune. Il primo è una risorsa scarsa e finita, il cui aumento di valore dipende, in buona sostanza, dal fatto che con il passare del tempo i giacimenti diventano sempre più scarsi. I dati, invece, sono qualcosa che è cresciuto in maniera esponenziale ed è destinato a crescere ulteriormente.

Non solo: il valore dei dati non dipende necessariamente da considerazioni quantitative, ma dall’effettiva capacità di estrarne valore. Accumulare dati, a differenza di ciò che può avvenire con il petrolio, non è sufficiente. Proprio come accade con l’oro nero è necessario essere in grado di raffinarli. Con un’ulteriore differenza: quando si parla di Big Data il fattore tempo è fondamentale.

Un’informazione, infatti, non mantiene il suo valore nel tempo. Spesso, anzi, il suo valore è terribilmente effimero e se non abbiamo gli strumenti per rintracciarla, analizzarla e utilizzarla in tempo reale diventa pressoché inutile. Insomma: quello che le aziende oggi devono chiedersi non è solo quanti dati riescono a gestire, ma come possono gestirli al meglio per trasformarli in valore.

Tradotto nella pratica, il tema dei Big Data obbliga ad affrontare lo storage sia sotto il profilo della quantità e qualità delle infrastrutture, sia sotto quello della sua evoluzione. Prestazioni, iperconvergenza e flessibilità sono le parole d’ordine che qualsiasi azienda deve necessariamente assimilare. Con buona pace dei petrolieri texani…

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