Nelle guerre tra nazioni ci rimettono le aziende

Le guerre moderne non si combattono solo sul terreno, ma anche nel cyberspazio. Se nel caso dei conflitti tradizionali i cosiddetti “effetti collaterali” riguardano il coinvolgimento di civili nei combattimenti, nella guerriglia informatica le vittime sono molto spesso le aziende. Non solo: a differenza di quanto accade nelle “vere” guerre, la cyberwarfare non conosce sosta.

La dimostrazione arriva dalle recenti “scaramucce” tra Iran e Stati Uniti, che hanno tenuto con il fiato sospeso l’opinione pubblica all’inizio di questo 2020. In seguito all’escalation che ha portato agli attacchi incrociati tra le due nazioni, il Dipartimento dell’Homeland Security statunitense ha infatti pubblicato un report per allertare le aziende riguardo il rischio di cyber-attacchi provenienti da gruppi di hacker collegati al governo di Teheran. Una procedura standard, almeno da quando i gruppi APT (Advanced Persistent Threat) sponsorizzati da governi e servizi segreti sono diventati protagonisti costanti nel panorama della cyber-security.

L’avviso, però, è arrivato troppo tardi. Come si è scoperto in seguito (la notizia era stata mantenuta riservata) i gruppi iraniani avevano già colpito e lo avevano fatto il 29 dicembre, qualche giorno prima che la crisi tra i due paesi toccasse il suo apice. A farne le spese è stata Bapco, la compagnia petrolifera di stato del Barhein, i cui sistemi sono stati messi K.O. da un malware che ha cancellato i dati di buona parte dei computer infettati.

Insomma: nello scenario moderno le aziende non devono preoccuparsi soltanto dei cyber-criminali interessati a rubare informazioni sensibili, ma anche delle possibili ripercussioni di scenari geopolitici sempre più imprevedibili. In quest’ottica, diventa indispensabile l’adozione di soluzioni di protezione che fanno leva sull’intelligence, soprattutto per settori produttivi “sensibili” come quelli manifatturieri o collegati alla produzione e distribuzione di energia.

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